Gaetano Basile, l’origine del cibo di strada Made in Sicily: aneddoti e curiosità 0

PALERMO. Gaetano Basile. Continua il nostro viaggio sulla genesi della cucina siciliana e delle sue tradizioni, accompagnati “per mano” da Gaetano Basile, storico palermitano ed esperto di cibo. Col lui abbiamo parlato del cibo di strada siciliano, oggi chiamato street food in tutto il mondo dalla quale deriva gran parte della nostra identità gastronomica.

Quando ha origine la cucina di strada in Sicilia?

“La nostra cucina di strada è molto antica, e si è evoluta sempre di più, la gente forse non lo sa ma l’ultimo nato è proprio il polpo bollito ricetta che ha origine nel 1943. Rispetto ai suoi concorrenti, come il “quarume” o la “stigghiola” è molto più giovane, è stato introdotto da Filippo Aiello, un signore di Mondello che vanta generazioni di pescatori.

In quei tempi i palermitani non avevano grande cura della loro igiene orale e mangiare il polpo, così duro ed elastico era impossibile, perciò ripiegavano sui piccoli polipetti più morbidi, e i polpi di dieci chili che nuotavano vicino alla costa non venivano neanche presi in considerazione. La situazione cambiò nel luglio del 1943, quando sbarcarono gli alleati.

Gli americani avevano dentature possenti e resistenti, masticavano chewin-gum continuamente. I soldati arrivarono in cerca degli sgombri, Aiello con la sua piccola barchetta gli propose i polpi, tagliati a fettine e conditi con un po’ di limone. “Very Good”, fu il commento entusiasta degli americani.

Da lì in poi è storia, il polpo non ha smesso di essere protagonista nelle tavole dei palermitani.

Se il set di moltissimi miti è la Sicilia esiste una ragione, la nostra terra è magica, succedevano cose eccezionali. I nostri antenati col macco producevano il farro, ovvero il grano duro rivestito, lo facevano bollire e lo mangiavano con un filo d’olio. Un piatto prezioso”.

Se era tanto prezioso come mai hanno smesso?

“Non hanno mai smesso, lo fanno ancora, la cuccìa ne è un esempio. Non la versione elegante, con la crema di ricotta, ma quella salata, molto diffusa nel siracusano. In Sicilia non cresceva nulla, la famosa Sikelia, terra di fichi e di ulivi tanto cara ai greci ha sempre ricevuto i prodotti da fuori, tutto quello che abbiamo è arrivato da altre culture.

I nostri alberi erano tutti selvatici, gli ulivi erano oleastri. Non producevamo nulla, neppure la vite, il pomodoro fu importato dall’America, la melanzana dall’Africa.

I prodotti sono arrivati da fuori ma noi li abbiamo modificati, coltivati, ne abbiamo cambiato la struttura, abbiamo fatto l’ogm prima ancora che si chiamasse così”.

E il panino con la milza? Qual è la sua storia?

“La “vastedda” con la milza, non panino ma vastedda, ha origini nobili, deriva dal francese ed era l’etimo dell’odierno gateau. Il panino con la milza è stato creato dagli ebrei che paradossalmente non potevano mangiarlo. Alcuni di loro per professione facevano gli uccisori nei macelli halal e kosher ma non potendo essere pagati per via delle leggi del Corano e del Talmud, ricevevano in cambio del loro lavoro le interiora degli animali, polmone, milza, cartilagini della gola.

Con una geniale indagine di mercato, degna di quelle odierne, si interrogarono sul quantitativo di musulmani e di cristiani. Essendo i cristiani in maggioranza netta crearono un panino per loro che potevano mangiare lo strutto senza problemi. Fu così che tra le mura del macello di Palermo degli ebrei e dei musulmani, dove oggi si trova il teatro Santa Cecilia nacque il panino con la milza”.

Che bevanda andrebbe abbinata al panino con la milza?

“Io abbino sempre un bianco, possibilmente ben strutturato. Il motivo è semplice, non c’è olio ma strutto e lo strutto mischiato al vino rosso crea in bocca una sorta di crema. Il bianco, meglio se ben freddo, pulisce la bocca e rompe col caldo del panino. È una cosa logica”.

Secondo lei la cucina tipica di un luogo esprime le caratteristiche del luogo stesso?

Sempre. A caratterizzare la nostra storia gastronomica è stata la nostra bravura, il nostro impeto creativo, siamo stati bravi. Abbiamo modificato e migliorato qualunque prodotto sia passato dalle nostre mani. Il pomodoro era appena accettabile ma noi abbiamo creato il pachino, il perino, il ciliegino. Arrivò la “badingian”, una melanzana che mangiammo cruda a morsi e morirono a migliaia perché conteneva la solanina, così la denominammo “mela insana”.

La mettemmo da parte perché pericolosa ma nel 1280 i padri carmelitani ce ne portarono un altro tipo dalla terra santa, modificata geneticamente in maniera del tutto naturale. La nuova nata non era per nulla pericolosa così che non potette più essere chiamata insana, assunse il nome di “petonciana”. Le ricette dell’800 non fanno riferimento alla melanzana e i dizionari fino al 1942 citano soltanto la petonciana“.

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Come ci siamo riappropriati del primo nome allora?

Esiste l’Accademia della Crusca. Storia e attività economica incidono molto sia sulla lingua che sulla cucina. Nel 1945 ci fu l’emigrazione dei terroni al nord. I siciliani rivoluzionarono la cucina del nord Italia. Riso, polenta, burro e maiale furono stravolti dal pomodoro, l’olio d’oliva, il pesce, gli spaghetti e proprio la melanzana. I venditori erano siciliani, i cuochi erano siciliani, e da buoni siciliani usavano il termine melanzana, tanto da far cadere in disuso la petonciana. È chiara l’importanza dell’emigrazione?

I piatti poveri ma buoni che non possiamo perdere sono quelli legati al cibo di strada?

Assolutamente si. Sono piccoli capolavori che hanno resistito per migliaia di anni, perché rinunciarci? Il panino con la milza ce lo invidia tutto il mondo. Il panino di per sé è l’emergenza, quando non posso sedermi comodamente a tavola per mangiare. I “cazzilli” poi, sono meravigliosi. Le nostre crocchè di patate hanno un criterio pure quando vengono mangiate, me lo insegnò un “panellaro” anni fa, si tronca a metà con gli incisivi e si porta il pezzo con la lingua verso il palato in modo tale da sentire ogni sapore, salato, acido, amaro, dolce. Una festa per le papille gustative. Non esiste un posto migliore dove gustare un buon panino con la milza, il posto migliore è quello dove tutti i sapori sono armoniosamente equilibrati, non si deve sentire solo la milza o solo il polmone, se vado ad un concerto di Wagner non voglio sentire solo il violino.

Siamo ciò che mangiamo, ed è un concetto che va oltre le parole, il cibo fa parte della nostra civiltà, della nostra anima, della nostra esistenza e del nostro modo di vivere. Non è una cosa a sè stante, cosa altra. Mangiamo ciò che siamo, il parlato puoi modificarlo, nel tono e nel contenuto, quello che mangi ti resta dentro”.

La prossima settimana Gaetano Basile ci parlerà della cucina araba e di quanto abbia influenzato quella siciliana. Ma ci spiegherà anche il profondo potere conviviale del buon cibo.

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Classe 1992, laureata a Palermo in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni, laureanda in Editoria e Giornalismo all’Università degli Studi di Verona. Solare e dinamica, ho svolto il tirocinio Erasmus a Barcellona, dove ho lavorato all’interno di una libreria italiana. Negli anni ho scritto per diversi giornali online come il Giornale del Mediterraneo e il Secolo Trentino. Attualmente collaboro per Sicilianews24 e Blog.it, giornali online di informazione. La mia nuova avventura riguarda il food, insieme al team di Orogastronomico.

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